perché ci danneggia e cosa fare per contrastarlo


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Parmesan, Fresh Buffalo Mozzarella, Gorgonzola-like cheese, Jambon de Parme, ma anche spaghetti Bologna o farfalle arcobaleno: sono tutti esempi più o meno conosciuti al grande pubblico di Italian sounding, quel fenomeno “imitativo” che consiste nell’utilizzare elementi della cultura culinaria italiana, come ingredienti, ricette, tradizioni o persino nomi italiani, per promuovere e vendere prodotti che non sono di origine italiana. Potrebbe sembrare quasi divertente all’orecchio del consumatore comune e perfino generare una punta di orgoglio, ma si tratta di un fenomeno che, secondo i dati più recenti, crea un danno all’economia italiana pari a 63 miliardi di euro all’anno.

Cos’è l’Italian sounding e in che modo ci danneggia

L’Italian sounding è un fenomeno molto diffuso, soprattutto per quanto riguarda prodotti alimentari, ma non solo. Le aziende straniere, agganciandosi alla reputazione della cucina italiana, creano spesso marchi che richiamano quelli italiani, ingannando così i consumatori. In sostanza si usano elementi della cultura culinaria italiana, per promuovere e vendere prodotti alimentari che non sono italiani. Ma l’Italian sounding inteso in senso più ampio riguarda anche ricette e preparazioni che richiamano la nostra gastronomia ma che poi non hanno un corrispettivo in questa, come i celebri spaghetti Bolognese.

Perché l’Italian sounding funziona così bene? I motivi sono diversi:

  • Reputazione della cucina italiana. La cucina italiana è rinomata in tutto il mondo per la sua qualità, varietà e gusto. L’associazione con l’Italia evoca immagini di prodotti freschi, genuini e preparati con passione.
  • Desiderio di autenticità. I consumatori sono sempre più alla ricerca di prodotti autentici e con una storia da raccontare. L’Italian sounding sfrutta questo desiderio, promettendo un’esperienza culinaria autenticamente italiana.
  • Marketing efficace. Le aziende utilizzano spesso elementi visivi come bandiere italiane, paesaggi italiani o immagini di nonne che cucinano per creare un’atmosfera familiare e invitante.

Si parla dunque di una serie di prodotti e preparazioni fra i più disparati, fra cui la pasta alla carbonara in lattina di Heinz, caso recentissimo, ma anche la pizza pasta australiana o i fusilli tricolore. L’uso indiscriminato dell’Italian sounding può creare confusione nei consumatori, che potrebbero pensare di acquistare prodotti autenticamente italiani. L’abuso di questo fenomeno rischia di svalutare il marchio Italia e la sua reputazione nel settore alimentare. Le aziende che utilizzano questo metodo in modo ingannevole creano di fatto una concorrenza sleale nei confronti dei produttori italiani autentici.

I casi di Italian sounding: i prodotti più imitati

I prodotti italiani più imitati si legano a dei “capisaldi” della nostra tradizione: si tratta soprattutto di olio, vino, pasta, formaggi, salumi, conserve, sughi e salse di vario tipo. Secondo il dati della ricerca “Italian Sounding:quanto vale e quale impatto per i territori” di The European House – Ambrosetti, sono il ragù, il parmigiano e l’aceto balsamico i tre prodotti che “perdono di più” rispetto alle loro imitazioni.

Per il ragù il 61,4% dei prodotti chiamati con questo appellativo sono fenomeni di Italian sounding, contro il 38,6%, che invece è il dato di presenza del vero prodotto italiano; poi abbiamo il parmigiano (61,0% vs 39,0%) e l’aceto balsamico (60,5% vs 39,5%). A seguire in classifica arrivano il pesto (59,8% Italian sounding vs 40,2% vero prodotto italiano), la pizza surgelata (59,3% vs), il prosciutto (59,2% vs 40,8%), la pasta di grano duro (59,2% vs 40,8%), il prosecco (58,9% vs 41,1%), il salame (58,5% vs 41,5%), il gorgonzola
(57,0% vs 43,0%) e l’olio extravergine di oliva (56,8% vs 43,2%).

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Nel 2023 i consumatori esteri hanno acquistato 63 miliardi di prodotti tipici italiani “falsificati”: il valore dell’export Food&Beverage italiano sarebbe più che raddoppiato a 126 miliardi di euro sommati ai 62 miliardi di export agroalimentare di vero Made in Italy, determinando quindi un “buco” di oltre 63 miliardi.

Non solo prodotti: la pasta pizza australiana a inizio 2000

Se prodotti a marchio vengono imitati così facilmente, le ricette offrono possibilità di “reinterpretazione” ancora maggiore: non si tratta però di un fenomeno che possiamo legare all’era più recente o all’espandersi dei social network. Il caso della “pasta pizza” australiana, infatti, risale alla fine degli anni ’90 inizi 2000, anche se non è facile stabilire con precisione una data. Si tratta di un prodotto ancora abbastanza in voga che, come suggerisce il nome, cerca di combinare le caratteristiche della pizza e della pasta. Solitamente si presenta come un formato di pasta dalla forma di una fetta di pizza, a volte con l’aggiunta di coloranti alimentari per simulare gli ingredienti tipici della pizza, come il pomodoro e la mozzarella.

Sfruttando dunque due icone legate alla nostra tradizione, l’idea è nata all’interno di un’azienda alimentare che cercava di creare un prodotto nuovo e accattivante per il mercato internazionale: l’Australia, essendo un paese multiculturale con una forte passione per il cibo, è stato un terreno fertile per questo tipo di sperimentazioni.

Perché è un problema? Per primo per la qualità degli ingredienti: spesso, la “pizza pasta” viene prodotta con farine di qualità inferiore, coloranti artificiali e aromi che simulano il sapore della pizza. L’obiettivo principale è quello di creare un prodotto dall’aspetto accattivante, a discapito del gusto e della qualità nutrizionale. Questo tipo di prodotto è spesso povero di nutrienti e ricco di sale e grassi, a causa dell’aggiunta di condimenti e aromi artificiali. Ultimo ma non per importanza, il danno all’immagine della cucina italiana: la “pizza pasta” contribuisce a diffondere un’immagine distorta della cucina italiana, associandola a prodotti industriali e di bassa qualità.

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Gli elementi sui cui giocano le aziende: prodotti, colori, bandiere e città

Nel fenomeno dell’Italian sounding possiamo individuare degli elementi ricorrenti, che permettono alle aziende produttrici delle imitazioni di fare leva sull’associazione prodotto – cucina italiana, anche senza dirlo esplicitamente. Potremmo dividerli in elementi gastronomici ed elementi visivi. Gli elementi visivi e linguistici più usati per “italianizzare” ricette e prodotti, nella gran parte dei casi, sono:

  • Colori vivaci. Il rosso, il verde e il bianco, colori della bandiera italiana, vengono spesso associati al cibo italiano. Ad esempio, una salsa con un colore rosso intenso o un pesto con un verde brillante può suggerire un’origine italiana, anche se gli ingredienti utilizzati sono diversi. Anche il blu del mare spesso viene usato soprattutto nelle ricette o prodotti ittici.
  • Ingredienti “tipici”. Pomodori, basilico, mozzarella, olive, olio d’oliva, parmigiano reggiano sono alcuni degli ingredienti più associati alla cucina italiana. La presenza di questi ingredienti, anche se di bassa qualità o provenienti da altre regioni, può far credere che un prodotto sia italiano.
  • Denominazioni geografiche. L’utilizzo di nomi di regioni italiane o di città famose per la loro cucina, come Toscana, Parma, Napoli, può suggerire un’origine italiana, anche se il prodotto è stato realizzato in un altro paese.
  • Packaging accattivante. Un packaging che richiama i colori e i simboli italiani, con immagini di paesaggi italiani, monumenti famosi o personaggi storici, può influenzare la percezione del consumatore e fargli credere di acquistare un prodotto autentico.
  • Diciture. Parole come “artigianale, originale, fatto in casa, tradizionale, della nonna/mamma” sono associazioni molto potenti con la cultura gastronomica e lo stile di vita italiani.

Gli elementi gastronomici più usati per “italianizzare” ricette e prodotti, nella gran parte dei casi, sono:

  • Pomodoro. L’ingrediente base di molte salse per pasta. All’estero, spesso viene utilizzato il concentrato di pomodoro, prodotto industrialmente spesso con l’aggiunta di coloranti, rispetto al pomodoro fresco o alla passata di pomodoro.
  • Basilico. Il basilico genovese è un ingrediente fondamentale per il pesto e per molte altre ricette italiane. All’estero, spesso viene sostituito con altre varietà di basilico, nei casi migliori, altre erbe aromatiche nei casi peggiori, soprattutto in polvere.
  • Parmigiano Reggiano. Il Parmigiano reggiano è uno dei formaggi più famosi al mondo. All’estero, spesso viene sostituito con formaggi simili, ma di qualità nettamente inferiore.
  • Olio d’oliva. L’olio extravergine d’oliva italiano è rinomato in tutto il mondo per la sua qualità: al suo posto spesso viene utilizzato lmiscele di oli di oliva di qualità inferiore, compresi prodotti molto discussi come olio di colza o di palma.
  • Aglio. L’aglio è un ingrediente fondamentale della cucina italiana, ma spesso viene utilizzato in quantità eccessive nelle ricette “italianizzate” all’estero, in ricette che non lo prevedono affatto, o liofilizzato.
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I casi di Italian sounding creati da noi

Lungi dal sembrare sepolcri imbiancati, sappiamo bene che a volte sono le aziende italiane a creare casi di Italian sounding, per scopi puramente commerciali. In questi anni ci sono stati diversi casi eclatanti, in cui l’azienda o il consorzio sono intervenuti in diversi modi.

Il pesto alla genovese con il basilico di Chicago

Questo caso ha sollevato un quesito fondamentale: un prodotto può definirsi “pesto alla genovese” se il basilico, pur essendo Dop, viene lavorato al di fuori del territorio italiano? Da un lato, l’azienda Rana sosteneva che il basilico utilizzato fosse esclusivamente genovese Dop e che il processo di lavorazione avvenisse nel rispetto delle norme. Dall’altro, le autorità italiane ritenevano che la produzione di pesto alla genovese dovesse avvenire interamente in Italia, per garantire l’autenticità del prodotto.

Il vino per il mercato americano che non è vino

Può sembrare paradossale ma uno dei vini italiani più venduti in America non è ufficialmente un vino. Negli Stati Uniti, primo mercato al mondo per consumi di vino, c’è un incremento di vendita impressionante dei vini “NoLo”, ovvero i vini senz’alcol (No alcol) o a bassa gradazione (Low alcol). Secondo i dati messi a punto dall’Osservatorio economico dell’Unione italiana, un terzo dei vini italiani venduti oltreoceano è costituito da prodotti che in Italia non sono considerati vino per la legge. Questo perché nel Bel Paese un vino è tale se ha un contenuto di alcol tra l’8% e il 15% di volume. Su 387 milioni di euro messi in cascina dai vini NoLo ben 341 milioni li fattura un’unica azienda: la Stella Rossa, etichetta che fa capo alla californiana Riboli Family Wines. Se non la conosci non è per ignoranza enologica: fanno vini in Italia ma li vendono solo in America.

Il “vino Chianti” prodotto con uva locale

In Cina, esiste un “vino Chianti” prodotto con uve locali, molto diverse dal Sangiovese. Il risultato era un vino dal sapore fruttato e leggero, molto lontano dal Chianti classico. In questo caso, però, è intervenuto il consorzio, cercando di determinare una soluzione di mediazione fra gli ovbiettivi di vendita, le norme vigenti e il rispetto della cultura gastronomica italiana.

  • Registrazione del marchio in Cina. Una delle prime azioni intraprese dal Consorzio è stata la registrazione del marchio Chianti Classico in caratteri cinesi. La scelta di una traslitterazione fonetica simile all’originale, “Shiandi”, ha permesso di mantenere una forte riconoscibilità del marchio.
  • Promozione e formazione. Il Consorzio ha investito in campagne di promozione e formazione per far conoscere al pubblico cinese le caratteristiche uniche del Chianti Classico e per insegnare ai consumatori a distinguere il prodotto autentico dalle imitazioni.
  • Collaborazione con le autorità. Il Consorzio ha collaborato con le autorità cinesi per combattere la contraffazione e per tutelare i diritti dei produttori italiani.
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Perché è così difficile contrastare il fenomeno

Il motivo principale, a nostro avviso, che non permette un contrasto sistematico al fenomeno dell’Italian sounding è la mancanza di leggi uniformate a livello internazionale: banalmente, se il sistema capitalistico permette ad Heinz di fare milioni con la carbonara in lattina, nessuno può impedirlo. Si tratta di una legge di mercato: finché la domanda è alta, il produttore guadagna e non può che esserne felice. Per questo una delle armi principali è quella di adeguare le normative dei vari Paesi: le leggi che regolano la tutela dei prodotti alimentari sono spesso complesse e variano da paese a paese, rendendo difficile un’applicazione uniforme delle norme.

Le normative esistenti, pur tutelando alcuni prodotti specifici come quelli con denominazione, presentano delle lacune per quanto riguarda la protezione più generale del marchio “Italia”. Le leggi nazionali hanno difficoltà a contrastare fenomeni che si sviluppano a livello internazionale, dove le normative possono essere diverse e meno stringenti. Infine, le azioni legali intraprese per contrastare l’Italian Sounding sono spesso lunghe e costose, scoraggiando molte piccole imprese.

Cosa possiamo fare noi

l’Italian sounding è un problema complesso che richiede un approccio multidisciplinare e una collaborazione a livello internazionale. Solo attraverso un impegno congiunto di istituzioni, produttori e consumatori sarà possibile contrastare efficacemente questo fenomeno e tutelare il patrimonio agroalimentare italiano. Nel frattempo anche giornalisti, ricercatori, cuochi, divulgatori e aziende coinvolte, possono intervenire “collateralmente”. Come farlo?

  • Educazione del consumatore. È necessario informare i consumatori sui rischi dell’Italian sounding e sulle caratteristiche dei prodotti autentici. Sfruttare i social media per diffondere informazioni corrette e coinvolgere i consumatori in discussioni sul tema, creare campagne informative che spieghino al consumatore quali sono i suoi rischi e come distinguere un prodotto autentico da una imitazione, realizzare guide pratiche che aiutino i consumatori a leggere le etichette.
  • Promozione dei prodotti Dop e Igp e non solo. Valorizzare le produzioni tipiche italiane e comunicare al consumatore i vantaggi di scegliere questi prodotti.
  • Etichettatura e tracciabilità. Promuovere l’utilizzo di etichette chiare e complete, che indichino l’origine del prodotto, gli ingredienti e il processo di produzione, sviluppare sistemi di tracciabilità efficaci che permettano ai consumatori di verificare l’autenticità dei prodotti e la loro provenienza. Esplorare l’utilizzo della tecnologia blockchain per garantire la trasparenza e l’integrità delle informazioni lungo tutta la filiera produttiva.
  • Sostegno alle piccole imprese. Le piccole aziende italiane hanno bisogno di essere supportate per poter competere con le grandi multinazionali.

Di questo e di molto altro parleremo anche al talk “La tutela del Made in Italy e i social network: il futuro delle eccellenze italiane” che si terrà sabato 8 settembre, nell’ambito del festival “Gragnano Città della Pasta”, in previsione dal 6 all’8 settembre.



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